L’ULTIMO VOLO DI RENATO
di Antonio TALLILLO
Il prodigarsi con generosità dei piloti dell’A.N.R. quasi inconsapevoli dell’atmosfera da incubo che si respirava nella Repubblica Sociale, con la crescente guerra civile in atto, essendo impegnati nella difesa dello spazio aereo, e perciò non coinvolti in rastrellamenti e rappresaglie, mi ha sempre affascinato. Quel tipo di guerra aerea, a metà fra il romantico duello ed il cosciente sacrificio, mi ha sempre interessato ed il fatto che un giovane pilota veronese sia caduto negli ultimi giorni di guerra sul fronte italiano, vicino a Verona, in circostanze doppiamente dolorose, mi ha spinto a romanzare un po’ il freddo episodio. Anche se la sua causa non era giusta, le sue motivazioni erano senz’altro così coerenti che deve rimanere il rispetto per chiunque abbia partecipato al conflitto come combattente regolare. Nell’aprile del 1945, il cielo italiano era pieno di aerei alleati, impegnati in incessanti missioni di bombardamento ed attacco al suolo, in appoggio costante alle truppe che avevano superato le ultime linee difensive tedesche e si dirigevano verso le Alpi. Anche la città di Verona, dalla quale Villafranca distava pochi chilometri, aveva avuto la sua parte di tragedie, con interi borghi sventrati, centinaia di persone uccise o ferite dagli attacchi aerei, che miravano a paralizzare le retrovie tedesche colpendo il vitale ganglio ferroviario. Pure a sud e a nord della città, sulla linea da Bologna al Brennero, alcuni piccoli paesi avevano pagato un pesante tributo di vite e beni. Ormai il dominio dell’aria, saldamente in mano alleata, rendeva vano ogni sforzo difensivo, che in aria era affidato solo ai caccia italiani che però portavano, come riconoscimento ottico per la contraerea, anche insegne tedesche. Contrariamente a quel che si può pensare, la caccia dell’Aviazione Nazionale Repubblicana fu un discreto esempio d’efficienza bellica. Montati su aerei di prim’ordine, usati secondo tattiche ispirate a quelle della Luftwaffe, più confacenti allo sviluppo della guerra aerea e con l’apporto di un’efficiente rete d’avvistamento e di allarme, fatta anche di radar tedeschi facenti capo ai centri di guida caccia, i suoi piloti non ebbero tuttavia la vita facile. La scarsità di carburante riduceva sempre il numero dei velivoli inviabili in missione e le perdite umane difficilmente rimpiazzabili tendevano a ridurre l’efficienza dei gruppi caccia, il cui nerbo era costituito comunque da personale di volo di buona qualità, a prescindere dall’effettivo numero di aerei nemici abbattuti, che resta ancora controverso. I successi non potevano che essere temporanei, e le possibilità di non fare ritorno erano tutt’altro che remote. Si aggiungano le difficoltà organizzative ed i rapporti non certo facili con i tedeschi e si avrà un quadro più preciso. Non era un giovedì qualsiasi il 19 aprile, all’aeroporto di Aviano, base del 2° Gruppo Caccia dell’A.N.R., cominciò un’attività febbrile. Era arrivato, la sera del giorno precedente, l’ordine di eseguire il trasferimento sulla base di Ganfardine (Villafranca), seguendo i 5 caccia della 5a Squadriglia che lo avevano già fatto, partendo da Rivolto. La 4^ (Gigi Tre Osei) e la 6^ (Gamba di Ferro) avevano ricevuto dei nuovi aerei, destinati a rimpiazzare le perdite subite all’inizio del mese. Anche se la Luftwaffe era in gravi difficoltà l’alto rateo di produzione rendeva disponibili ancora diversi Messerschmitt Me 109 di modello recente, fra i quali almeno due K-4, nuovi di zecca. Si trattava delle ultime versioni di un aereo già leggendario, non erano armatissimi ma affidabili e potenti. Erano anche veloci, grazie al dispositivo di superpotenza che iniettava acqua e metanolo nel motore. Non erano però facili o gradevoli da pilotare, a velocità massima i comandi s’indurivano, la cabina di pilotaggio pressurizzata era angusta ed il carrello d’atterraggio fragile, tutto questo naturalmente abbassava i limiti di sicurezza. I caccia tedeschi erano entrati in lizza quando non fu più possibile averne di italiani, il 2° Gruppo li aveva già da tempo ed anche nell’ottobre, quando aveva ripreso a volare e combattere, erano arrivati altri aerei delle ultime versioni G. A fine aprile, disponeva di 47 Me.109 tra i quali ancora 16 G-6 ormai superati, e 25 nelle versioni G-10, G-14 e G-16 e 6 nella versione K-4. Bene o male, sino ad allora il reparto italiano era riuscito a sfuggire alla ricognizione avversaria, operando da aeroporti parzialmente distrutti e con forti misure di sicurezza, aveva impiegato al meglio i suoi caccia, che dopo aver colpito sparivano al momento opportuno. I velivoli, a terra, venivano molto ben mimetizzati, all’occorrenza si sistemavano delle sagome in legno, costruite in serie a Rovereto e Bolzano, imbottite di stracci intrisi nell’olio bruciato, da incendiarsi a beneficio dei piloti alleati. Andò a finire che il Reparto, riuscì a dare loro filo da torcere in centinaia di missioni e 48 combattimenti aerei, unica formazione efficiente fino al ritorno del 1° Gruppo agli inizi di febbraio 1945, si guadagnò, infatti, dagli avversari il nomignolo di "gruppo fantasma" . Ma gli imprevisti erano sempre in agguato, ad esempio per il 2° una "giornata nera" fu il 2 aprile, Pasquetta, che vide due furiosi combattimenti, buoni successi ma anche dure perdite, 14 aerei distrutti su 30 che avevavo preso parte al combattimento, 7 piloti caduti e 4 feriti. Inoltre una squadriglia composta da 7 Me 109 era stata decimata durante l’atterraggio a Villafranca, mitragliata da caccia americani non segnalati dai radar. Non restò altro da fare che perfezionare il sistema aeroportuale che verteva anche su Ghedi (Bs) comprendendo pure Vicenza e Thiene nel vicentino e nel Friuli , Aviano, Campoformido ed Osoppo, col comando nelle ville Portalupi e Sicurtà a Valeggio (Vr). L’alba del 19 vedeva il personale di terra già al lavoro attorno ad una trentina di caccia, era da diverso tempo che non se ne vedevano così tanti riuniti sul campo. La loro dispersione sull’aeroporto e le misure di mascheramento posero alcuni problemi e fu necessario interrompere più volte i preparativi essendo stati segnalati aerei nemici nei paraggi. Solo verso le 11,40 al razzo verde di partenza rispose il rombo di 24 motori. I tre aerei del nucleo Comando partirono per primi, seguiti dai 12 Me 109 della 4^ Squadriglia, a loro volta seguiti sia da tre aerei della 5^ Squadriglia e dai sei apparecchi della 6^, comandata dal capitano Luccardi. Chiudevano la lunga fila due Me.109 K, affidati ai due sergenti veronesi Zanardi e Patton. Le loro prestazioni più elevate rispetto ai G del reparto li rendevano utili per "coprire" tutta la formazione in retroguardia. Più o meno nello stesso momento, a quasi 300 km di distanza, 16 caccia americani P-51 D "Mustang" del 317° Squadron, del celebre 325° Fighter Group conosciuto per le code degli aerei dipinte a scacchi gialli e neri, decollati da Mondolfo (Pesaro), si univano ad una formazione di bombardieri tattici B-25 del 340° Bomber Group, partiti da Rimini con la missione di colpire il ponte di Ora in Alto Adige. Alle 11,15 circa, i caccia italiani misero il muso ad ovest e cominciarono a fare quota per arrivare a quella di crociera che era di circa 6.000 metri, verso mezzogiorno però sei di essi erano costretti, uno dopo l’altro, a tornare verso Aviano per alcuni guasti ed inconvenienti tecnici. La 6^ Squadriglia non registrò inconvenienti e serrò sotto, ricompattando la formazione e sempre con i due "K" di retroguardia. Intanto, verso le 12,30, i bombardieri americani e la loro scorta, terminato il passaggio sul loro obiettivo, iniziavano a virare sulla rotta di ritorno: ancora una decina di minuti e le due formazioni, ancora ignare una dell’altra, sarebbero arrivate al contatto visivo. Proprio mentre da lontano si profilavano le inconfondibili rive del Lago di Garda, dalla guida-caccia di Verona giunse l’informazione sugli aerei americani, che stavano avvicinandosi alla zona meridionale del Garda, il comandante italiano decise senza indugio di attaccare, tenendo conto anche delle circostanze tattiche ed avendo il vantaggio della sorpresa, della quota e del sole alle spalle. Un rischio calcolato, insomma, solo che contrariamente alle aspettative, i caccia avversari non erano i "soliti" P-47 o Spitfire. Mentre un altro Me 109 lascia la formazione per noie al motore, gli aerei della 4^ Squadriglia "mollano" i serbatoi supplementari e picchiano per attaccare i bombardieri, lasciando di copertura gli aerei della 6^ Squadriglia. Una decina di aerei si lanciano così a tutto motore verso i B-25, ma in pochi secondi, i piloti italiani realizzano che tra essi ed i B-25 c’era una scorta : sono i temibili P.51. Non ci fu il tempo d’impostare meglio il combattimento o sganciarsi, otto caccia americani si distaccarono dalla formazione principale, piombando sui Me 109. Il comandante americano, il tenente Schaefer, abbattè quasi subito con una raffica da 300 metri un Me 109 che si era spinto troppo avanti, altri 109 avevano tentato di riprendere quota ma alcuni si trovarono isolati. Il gregario di Schaefer, tenente Baldwin, dopo aver abbattuto l’aereo del sergente Bianchini mise a profitto la superiore velocità di salita del P-51 per dirigersi verso la pattuglia più alta della formazione italiana. La 6^ Squadriglia cominciava a disperdersi, con l’aereo del sergente Patton che rallentava per noie al motore ed il suo compagno Zanardi che cercava di non perdere il contatto. Zanardi vide con la coda dell’occhio i P-51 ma non ebbe che il tempo di lanciare un breve messaggio alla radio, già con due Mustang alle calcagna. Il Me 109 di Patton venne colpito dal fuoco di Baldwin, il pilota riuscì a saltare dall’aereo in fiamme, ma il suo paracadute non si dispiegò completamente ! Zanardi, inseguito per qualche minuto, con l’aereo colpito e senza carburante, non ebbe molta scelta se non rovesciarlo e lanciarsi. Al resto della 6^ Squadriglia non era andato molto meglio, gli aerei del maresciallo Covre e del sergente Tampieri erano circondati dai caccia americani e sotto tiro, senza potersi disimpegnare, il primo riuscì a gettarsi dall’aereo prima che esplodesse, il secondo ebbe il tempo di eseguire un mezzo tonneau seguito da una ripida picchiata che gli permise di sganciarsi. La battaglia aerea stava per finire subitamente, com’era cominciata, gli otto P 51 erano sparpagliati un po’ dappertutto e nel riunirsi i loro piloti si scambiavano euforici commenti alla radio, in poco più di un quarto d’ora avevano abbattuto o danneggiato sei "banditi" , senza riportare neanche una perdita. Il combattimento era finito anche per gli italiani, i sei caccia della 4^ Squadriglia proseguivano per Ghedi, al fine di non ingombrare la zona di volo di Villafranca, mentre gli altri sei Me 109 rimasti si dirigevano subito verso Villafranca. La notizia della tragica morte di Renato Patton arrivò a Villafranca qualche ora più tardi, quando un po’ tutti i piloti scampati col paracadute erano arrivati alla base, con mezzi di fortuna. La sua salma era stata trovata non lontano da Ponti sul Mincio, il giovane pilota veronese aveva avuto il destino di essere tra i 42 caduti del 2° Gruppo e fra gli ultimi dell’A.N.R. Il particolare più amaro, nel già tragico destino, era costituito da quel paracadute semiaperto, fu infatti ritrovato con un grosso nodo, effettuato per sabotaggio, nel fascio di funi. TORNA INDIETRO